Nel 1903 l’allora segretario comunale di Conselice, Paolo Negri, segnalava la volontà di pubblicare «tutti gli scritti che tengo e che posseggo di questo benemerito concittadino poco conosciuto e meno apprezzato»: il patriota conselicese Eleuterio Felice Foresti (1789-1858). Negri era difatti un convinto sostenitore della necessità di valorizzare la storia, particolarmente quella locale, approfondendola e tramandandola: secondo il suo pensiero, «solo attraverso la conoscenza del particolare si sarebbe potuto arrivare alla comprensione della storia generale». A quasi centovent’anni di distanza, l’impresa è stata ripresa e compiuta da un compatriota di Negri e Foresti: Rizieri Fuzzi. Come sottolineato da Mirtide Gavelli nella presentazione del volume Eleuterio Felice Foresti. L’uomo, il patriota, il grande romagnolo «non è uno sconosciuto», poiché più volte biografato e presente in tutti i più noti repertori e dizionari biografici. Altresì, a mancare nel panorama storiografico nazionale era uno strumento di lavoro relativo alla sua figura, come lo è invece questa trascrizione di una parte considerevole del suo carteggio privato, donato dallo stesso Negri al Museo del Risorgimento di Bologna, che favorisce l’emersione del «suo spessore umano prima ancora dello spirito patriottico», come notato dalla sindaca Paola Pula nella sua presentazione. Difatti, accanto alla quotidianità del suo impegno politico, risalta dai suoi scritti anche quella difficoltosa routine dell’esulato e della lontananza (silente) degli affetti parentali ed amicali. Come scrive Annita Garibaldi Jallet nella prefazione, Foresti fu un “italiano ante litteram” che, se certamente nacque nella penisola (anzi, viene qui finalmente chiarita la “querelle” relativa al suo effettivo luogo di nascita), per la sua attività politica condotta forzosamente all’estero – fu costretto all’esilio negli USA dopo la carcerazione morava – maturò fuori dal suo Paese natìo quel programma per l’Italia futura che mise in atto dapprima nelle file della Carboneria, quindi al fianco di Giuseppe Mazzini, ed infine trascinato dalla fascinazione per Garibaldi (senza contare quella, invero breve come lo fu per tanti altri, per il primo Pio IX).
La giustapposizione presente nel titolo dell’opera, quella tra il Foresti “Uomo” ed il Foresti “Patriota”, ritorna costantemente nelle lettere e nei documenti presentati da Fuzzi, anche se i due termini sono in Foresti pressoché inscindibili. Nell’economia del volume è però pregnante il primo di questi aspetti, grazie al quale è possibile avvicinarsi all’inclinazione altamente mazziniana nutrita dal Foresti nei confronti della necessità dell’educazione per le classi popolari, oltre al tormento di un esule che si sentiva terribilmente isolato dalla sua cerchia familiare e dai suoi vecchi amici – per disinteresse, avversione dei suoi principî politici o, peggio, per viltà (si veda in particolare la lettera al cugino Casimiro datata New York, 31 ottobre 1839). Particolarmente significative sono queste pagine relative al Foresti “Uomo” anche per il loro carattere inedito, anche se non va certamente dimenticata quella dimensione politica (già indirettamente rimarcata in altri epistolari editi) che lo vide incarnare un ruolo fondamentale nell’avvicinamento di Garibaldi e Cavour, o sposare fin dal 1847 l’idea di trasferire la Legione Italiana da Montevideo all’Italia, od ancora le sue riflessioni in merito al ruolo che avrebbe dovuto giocare Vittorio Emanuele II nello sviluppo della causa nazionale. Su tutte, rimandiamo alla lettera che Foresti inviò al marchese Giorgio Pallavicino (già suo compagno di detenzione allo Spielberg) il 15 agosto 1856, in cui il conselicese condivise col nobile meneghino le sue impressioni sull’incontro torinese tra i futuri “fattori” del Risorgimento italiano. Quest’epistola è parimenti notevole per l’aspetto poc’anzi citato, l’importanza dell’educazione popolare in Foresti – perché, come scrisse nel 1848 a Giuseppe Garibaldi, «è nella natura delle cose che l’uomo prima “pensi e senta e poi agisca”» (p. 172). Da questo sentire maturò la successiva proposta a Pallavicino di redigere un vero e proprio “catechismo politico” ad opera del Partito Nazionale, «semplice e chiaro nel dettato, mercé del quale sia dimostrata al più zotico de’ popolani la necessità della rivoluzione […]. L’uomo pensa poi agisce; ineluttabile legge di tutte le azioni umane. Facciamo dunque pensare il basso popolo, a modo nostro, ed avremo soldati e rivoltosi e bande armate, e passioni politiche, la vita, l’energia, la vittoria delle rivoluzioni. Chi non conosce o non prevede le importanti conseguenze di questo grand’atto preparatorio (rivoluzione morale), se ne stia a casa, o fra i ciechi. I grandi rivolgimenti politici partirono da un concetto, che si infiltrò nelle masse popolari» (p. 214, corsivo nel testo). D’altronde, già nelle sue Memorie sulla Carboneria, ascrisse il fallimento di quella società segreta proprio alla trascuratezza da essa mostrata verso il ceto contadino, sul quale non si poté contare in occasione dei moti del ’21.
Notevole è infine il ruolo di Foresti come osservatore delle cose americane, ed in particolare – alla luce della sua pluridecennale detenzione asburgica – risalta l’elogio del sistema carcerario statunitense: «un modello di filosofia criminale, che unisce felicemente lo scopo della giustizia punitiva all’umanità, all’emendamento dei colpevoli» (lettera da New York, 15 settembre 1840), un confronto impietoso con gli anni terribili dello Spielberg dove, scriveva ancora nelle sue Memorie, «Eravamo proprio seppelliti vivi in una tomba» (p. 44). Proprio servendo l’aquila americana terminò l’esistenza di Foresti, pochi mesi dopo la sua nomina a console statunitense presso il Regno di Sardegna: «Abbiamo fatto una perdita – una perdita irreparabile – scriveva Pallavicino ad Angelo Pichi nel settembre 1858 – Ed una perdita irreparabile ha fatto la causa italiana!! Foresti era un eroe, e io l’ho visto sovente alla prova; egli era un Romano antico. Io non so darmi pace pensando che al fortissimo de’ compagni miei nella cattività e nell’esilio, rese giustizia l’America, ma non l’Italia!» (p. 258). Di certo, questo volume va proprio nella direzione auspicata da Pallavicino più di 160 anni fa.
Andrea Spicciarelli